Orchestra Sinfonica di Milano - Articoli

SOSTAKOVIC E LA LENINGRADO

Pubblicato il 14/02/2023

Nel panorama musicale del Novecento, tra sperimentazioni estreme e ricerca senza confini, la musica di Šostakovič può apparire come una mosca bianca. Fondamentalmente estranea alle correnti compositive più radicali, al serialismo, alla musica elettroacustica e spettrale, essa appare sì tinta del gusto affilato e "futurista" delle avanguardie storiche, ma mai del tutto aliena all'armonia tonale e alle forme compositive della tradizione eurocolta. Eppure, nonostante questo apparente anacronismo di stile, le opere di Šostakovič sono quanto di più immerso nella contemporaneità si possa immaginare. La sua musica è indissolubilmente legata alle vicende storiche e sociali dell'Europa e soprattutto del suo Paese, l'Unione Sovietica. 

Ripercorrere la sua biografia significa immergersi nelle contraddizioni, nei successi, nei fallimenti, nelle tragedie e nelle conquiste del popolo russo e sovietico lungo quasi l'intera storia dell'Unione. Analizzare la sua opera fornisce inoltre un quadro completo dell'avvicendarsi delle strategie con le quali il Partito Comunista ha esercitato negli anni il suo controllo sulla produzione artistica e culturale, alternando impietosa censura e momenti di apertura legati spesso a ragioni contingenti. Šostakovič visse sempre teso tra la vastità della propria ispirazione e i limiti impostigli dall’alto, e riuscì nonostante tutto a rendersi testimone di un'epoca con una sensibilità e una lucidità di pensiero spiazzanti e commoventi.
© da sinistra: Sergej Prokof'ev, Dmítrij Šostakóvič e Aram Khachaturian
Nato nel 1906 a San Pietroburgo, Šostakovič mostrò fin da giovanissimo una spiccata affinità verso la musica; nel 1925 a soli 19 anni riscosse grande successo con la sua Prima Sinfonia, opera che gli valse anche il conseguimento a pieni voti del diploma in Composizione al Conservatorio di Leningrado. Negli anni seguenti compose numerose colonne sonore per il cinema e musiche di scena per il teatro, nonché un’opera lirica basata sul racconto di Gogol’ Il Naso, completata nel 1928. Portò a termine nel ’27 e ’29 anche la sua Seconda Sinfonia, dedicata alla Rivoluzione d’Ottobre, e la Terza, “al Primo Maggio”.
La produzione di Šostakovič in questo periodo risulta fortemente influenzata dalle avanguardie rivoluzionarie e dal costruttivismo, corrente che ripudiava il concetto di “arte per l’arte” in favore di un’arte militante, nuova, adatta al mondo nuovo che si veniva costruendo nella neonata Unione Sovietica. In questi anni iniziano a delinearsi inoltre i tratti salienti del suo stile compositivo, come l’acuto senso del grottesco e della satira, l’utilizzo di melodie cromatiche e imprevedibili, i mutamenti improvvisi di ritmo e armonia.
Il Naso e alcuni altri brani composti in questi anni attirarono le critiche dell’ARMP (Associazione Russa dei Musicisti Proletari, il primo organo ufficiale di controllo sulla produzione musicale nel Paese), dalle quali Šostakovič riuscì a smarcarsi grazie alla sua attività nel cinema, considerato dall’Associazione come lo strumento ideale per l’Agit-Prop e la diffusione degli ideali del marxismo-leninismo tra le masse.

La posizione del compositore era però destinata a complicarsi in modo irreversibile negli anni a venire: nel 1932 fu infatti istituita l’Unione dei Compositori, e nel 1934 al Congresso degli Scrittori e degli Artisti Sovietici furono definite le linee del realismo socialista, la dottrina programmatica cui tutte le arti avrebbero dovuto adeguarsi per essere accettabili agli occhi del Partito, e dunque dello Stato. Teorizzato in primo luogo da Maksim Gor’kij, ed esteso a tutte le discipline artistiche dopo le considerazioni di Andrej Ždanov, il realismo socialista chiedeva agli artisti di rappresentare la realtà “nel suo sviluppo rivoluzionario”, in accordo con le teorie del marxismo-leninismo e in una forma di chiara leggibilità, accessibile alle masse. Con le parole di Ždanov:


Il compagno Stalin ha chiamato i nostri scrittori gli ingegneri delle anime. Che cosa significa ciò? Che obbligo vi impone questo titolo? Ciò vuol dire, da subito, conoscere la vita del popolo per poterla rappresentare verosimilmente nelle opere d'arte, rappresentarla niente affatto in modo scolastico, morto, non semplicemente come la “realtà oggettiva”, ma rappresentare la realtà nel suo sviluppo rivoluzionario. E qui la verità e il carattere storico concreto della rappresentazione artistica devono unirsi al compito di trasformazione ideologica e di educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo. Questo metodo della letteratura e della critica è quello che noi chiamiamo il metodo del realismo socialista. 

La dottrina era sufficientemente ambigua nella sua formalizzazione da potervi includere o escludere di volta in volta personalità che rischiavano di attirare su di sé troppa attenzione, o minacciavano di diffondere messaggi non interamente coerenti alla propaganda di partito. Chiunque non apparisse sufficientemente allineato agli occhi delle varie Unioni degli artisti sovietici veniva tacciato di “formalismo borghese”, ovvero di confondere di proposito il pubblico proletario con un’arte in cui la forma, appunto, soverchiava il contenuto e lo oscurava.
Šostakovič si trovò per la prima volta di fronte ad un’accusa che non poté in alcun modo ignorare nel 1936, allorché Stalin e il suo entourage assistettero alla messa in scena della sua opera Lady Macbeth del distretto di Mcensk, composta nel 1934. Nonostante l’opera avesse riscosso grandissimo successo di critica e pubblico, e fosse stata eseguita per ben ottantatré volte a Leningrado e novantasette a Mosca, quella serata segnò un punto irreparabile nella carriera del compositore. Il dittatore, infatti, si alzò a metà dello spettacolo, abbandonando la sala con il suo seguito. Il giorno dopo sulla Pravda, il quotidiano nazionale, comparve un articolo anonimo intitolato “Caos anziché musica”, nel quale l’opera di Šostakovič veniva pesantemente attaccata, e il suo autore minacciato con queste parole:

Il potere della buona musica di influenzare le masse è stato sacrificato per un tentativo “formalista” e piccolo-borghese di creare qualcosa di originale con delle pagliacciate da quattro soldi. È un arguto gioco d’ingegno che potrebbe finire molto male.

Da un giorno all’altro ogni replica della Lady Macbeth fu annullata, tutti i critici che l’avevano esaltata furono costretti a ritrattare le loro opinioni, e il compositore cadde in disgrazia, perdendo tutti i suoi committenti e il supporto della maggior parte dei suoi colleghi e amici. Tra i pochi che ebbero il coraggio di prendere le sue difese citiamo Isaac Babel’ e Vsevolod Mejerchol’d, che furono successivamente arrestati e fucilati.

Šostakovič fu costretto a cancellare la prima della sua Quarta Sinfonia, opera complessa e dalla struttura particolare, che doveva essere eseguita lo stesso anno a Leningrado.
Per la prima volta nella sua vita, Šostakovič dovette scendere a patti con le forze che gli si erano scatenate contro e che minacciavano di distruggere non solo lui stesso, ma anche la sua famiglia e i suoi cari. Per questo nel 1937 egli compose la sua Quinta Sinfonia, opera di cruciale importanza per lo sviluppo di quel “doppio linguaggio” che si può trovare in tutta la sua produzione successiva: in superficie il lavoro appare aderente ai canoni formali e contenutistici auspicati dal regime, ma numerosi dettagli gettano luce sulla più profonda battaglia interiore di Šostakovič stesso. La Quinta fu un successo immediato, e riuscì nell’intento di riabilitare il compositore agli occhi del potere. Una recensione divenuta celebre la definì “l’onesta risposta di un compositore sovietico a delle giuste critiche”.
L’atteggiamento che le opere di Šostakovič assunsero nei confronti della linea del Partito dall’anno della composizione della Quinta in poi merita uno sguardo più approfondito. In Occidente il dubbio sulle reali idee politiche del compositore fu un punto cruciale nella ricezione delle sue opere, specialmente durante la Guerra Fredda. In parte i paesi del blocco occidentale condividevano la stessa ansia delle autorità sovietiche per la presenza di influenze politiche “avversarie” nella produzione artistica: si temeva insomma che Šostakovič fosse una pedina del governo dell’URSS, e che celebrare i suoi successi musicali significasse lasciare spazio alla propaganda comunista.
Il paradosso fu proprio che mentre in patria egli veniva accusato di essere filo-occidentale e pericolosamente borghese, all’estero era invece visto come diretto emissario della volontà del Partito Comunista e di Stalin!
Anche al giorno d’oggi, dopo la caduta del Muro e dell’URSS, in un mondo in cui di fatto la dicotomia capitalismo-comunismo non è più la principale spaccatura dei fronti geopolitici, spesso nell’approcciarsi a Šostakovič sembra necessario rintracciare tutti i dettagli della sua opera che lo pongono in contrasto con il governo del suo Paese, quasi a volerne fare a tutti costi un dissidente interno. Quest’operazione non può che scontrarsi contro altri aspetti della sua personalità che non appaiono invece giustificabili se si assume questo punto di vista a priori, il che porta a un generale imbarazzo e alimenta la diffidenza.
È fondamentalmente impossibile conoscere con certezza le idee intime di Šostakovič, in quanto nel clima pesante in cui visse era di fatto molto pericoloso esprimere i propri reali pensieri sia in pubblico che in privato. La veridicità delle testimonianze dei suoi cari è stata messa in dubbio più volte, e non vi è alcun consenso né risposta definitiva. Tuttavia possiamo ragionevolmente supporre che Šostakovič fosse una persona complessa, sicuramente legata agli ideali socialisti fin dalla gioventù (come dimostrano i suoi tanti, sinceri gesti attivi volti alla diffusione della cultura in modo realmente democratico e collettivo), ma sufficientemente intelligente e sensibile da essere consapevole dei crimini perpetrati da Stalin, e dei caratteri del potere sovietico che non rispecchiavano più gli ideali della Rivoluzione a lui cari. Alla luce di quest’immagine più completa e “umana” del suo carattere si può comprendere la sua continua lotta interiore tra la necessità di denunciare quanto egli percepiva essere intollerabile nel suo Paese, e il bisogno di continuare a produrre musica nel suo Paese e per il suo popolo. Anziché scegliere la strada dell’esilio, della totale condiscendenza al potere costituito, o al contrario della clandestinità, Šostakovič percorse un sentiero pericolosissimo fatto di compromessi, utilizzando quanto di buono l’organizzazione statale sovietica gli poteva offrire e ritagliandosi spazi di libertà fra le righe per lanciare messaggi in codice a chiunque avesse la sensibilità di coglierli, per dare speranza agli spiriti a lui affini e farli sentire meno soli nelle proprie convinzioni.

Questa lunga premessa apparentemente irrilevante è invece fondamentale per approcciarci all’opera su cui ci concentreremo ora, la Settima Sinfonia, detta proprio Leningrado.
Questa composizione rappresenta forse l’unico momento nella vita di Šostakovič in cui le sue intenzioni coincisero quasi perfettamente con ciò che il governo gli richiedeva, e la storia della sua composizione ed esecuzione rivela molto dello spirito della città di Leningrado e dei suoi abitanti, nonché di tutto il popolo sovietico nel corso della guerra. Quando nel settembre 1941 le truppe naziste giunsero alle porte della sua città natale, cingendola d’assedio, il compositore si mise subito al lavoro per sostenere con il suo lavoro lo sforzo collettivo di resistenza all’invasore, producendo una blitzsymphonie in risposta al blitzkrieg nazista. L’esecuzione dell’opera il 9 agosto 1942 nella città assediata da quasi un anno, da parte di un’orchestra i cui musicisti erano allo stremo delle forze a causa della fame, fu un evento la cui risonanza oggi forse difficilmente possiamo apprezzare appieno. Šostakovič in questa Sinfonia riuscì ad esprimere tutto il dolore che i suoi concittadini e compatrioti avevano provato nel primo anno di guerra, a dare forma alle loro paure e speranze, e a farlo tramite un medium per sua natura collettivo e di altissimo spessore culturale. Per gli abitanti dell’Unione Sovietica e soprattutto di Leningrado, in quanto centro della vita culturale del Paese, gli artisti erano sempre stati considerati il “frutto migliore”, esempi altissimi di umanità da ascoltare e da cui trarre conforto e insegnamento. Il fortissimo legame delle persone comuni con la grande tradizione letteraria e musicale russa era tale che persino Stalin adottò un atteggiamento molto meno rigido sul piano della cultura durante gli anni della guerra. Egli comprese che per infiammare gli animi del popolo e sostenerli in questa lotta disperata era necessario fare appello a qualcosa di più profondo degli slogan che aveva propagandato per il suo intero mandato di governo, e dunque “chiuse un occhio” nei confronti di letterati e musicisti che, dal canto loro, ritenevano un dovere morale imprescindibile donare il meglio di sé alla collettività. Oltre a Šostakovič ricordiamo Anna Achmatova, poetessa leningradese che rimase nella città assediata fino all’ultimo, spronando gente comune e soldati tramite messaggi radio, prima di essere infine sfollata con altre personalità di spicco. Nell’agosto del 1941 si rivolse ai suoi concittadini via radio con queste parole:

Tutta la mia vita è legata a Leningrado. A Leningrado sono diventata una poetessa. 
Leningrado ha dato ali alla mia poesia. E io, al pari di tutti voi in questo momento, vivo nell’incrollabile fede che Leningrado non sarà mai fascista.

Colpisce la fortissima affinità del messaggio della Achmatova e di quello di Šostakovič, che nel settembre dello stesso anno, a pochi giorni dall’inizio dell’assedio, annunciò:

Io, leningradese di nascita, che mai ho lasciato la mia città natale, sento adesso più che mai la tensione della situazione. Tutta la mia vita e tutto il mio lavoro sono legati a Leningrado.
Leningrado è la mia patria. La mia città natale, la mia casa. E molte altre migliaia di leningradesi sentono quello che sento io. […] La musica che ci è tanto cara, alla cui creazione dedichiamo il meglio di noi, deve continuare a crescere e a perfezionarsi, come è stato sempre. Dobbiamo ricordare che ogni nota che esce dalla nostra penna è un progressivo investimento nella possente edificazione della cultura. E tanto migliore, tanto più meravigliosa sarà la nostra arte, tanto più crescerà la nostra certezza che nessuno mai sarà in grado di distruggerla.

Un altro tratto in comune tra questi due artisti è la volontà di rivolgersi al proprio popolo accettando anche alcuni compromessi pur di condividere con esso le sue tragedie, senza sottrarvisi, fuggire all’estero o tacere per comprarsi una vita anonima e tranquilla. Non esistono parole più forti per esprimere questa volontà dei versi che aprono la raccolta di poesie Requiem, della Achmatova:

No, non sotto un cielo straniero,
non al riparo di ali straniere,
io ero allora col mio popolo
là dove, per sventura, il mio popolo era.

Il tema della compartecipazione ai dolori del popolo è una costante anche nell’opera di Šostakovič, e la Settima ne è il primo, grande esempio.
Ma come si struttura musicalmente questo monumento? Come si possono condensare così tante anime in una sola musica?
Il compito è a dir poco titanico, e infatti la Settima presenta caratteristiche particolari, che le attirarono sia plausi che critiche. Le circostanze eccezionali nelle quali vide la luce sono la ragione della sua caratteristica saliente, ovvero la chiarezza dei temi e la loro trascinante carica emotiva. Osserviamo più da vicino la sua struttura e i suoi contenuti.
Innanzitutto notiamo che è divisa in quattro movimenti, come di consueto nelle sinfonie, con un primo movimento in forma sonata, il secondo in forma di scherzo, un adagio tripartito e un finale anch’esso in tre parti.
Il primo tema del primo movimento, Allegretto, è una melodia fiduciosa e sicura che, come scrive il compositore:

parla del popolo che vive una vita pacifica e felice [...], 
che ha fiducia in se stesso e nel proprio futuro.

Il secondo tema ha invece una natura più sommessa e lirica, e si dissolve all’acuto fino a portare al vero simbolo dell’intera sinfonia, il tema cosiddetto dell’invasione. Laddove in una forma sonata ci si aspetterebbe uno sviluppo, ovverosia un’esplorazione motivica e tonale risultante dalla ricombinazione dei due temi dell’esposizione, Šostakovič inserisce un episodio completamente autonomo, destinato a diventare celebre. Un ritmo ostinato di rullante introduce un tema che verrà ripetuto per ben dodici volte, in un continuo, travolgente crescendo che ricorda per costruzione il Boléro di Maurice Ravel. La seconda parte della melodia di questo breve tema è una citazione dell’aria Da geh' ich zu Maxim dall’operetta di Franz Lehár La vedova allegra, uno dei brani preferiti di Adolf Hitler stesso. La ripetizione cresce d’intensità in modo terrificante, e dopo la dodicesima ripetizione cambia tonalità rivelandosi in tutta la sua ferocia, e richiamando il tema del Destino dalla Quinta Sinfonia di Čajkovskij. 
La genesi di questo tema è anch’essa oggetto di dibattito, in quanto sebbene l’intento programmatico dichiarato fosse quello di rappresentare “la guerra che irrompe improvvisamente nella vita pacifica” alcune testimonianze suggeriscono che Šostakovič ideò il tema dell’invasione prima dello scoppio della guerra.
 Inoltre, l’aggressione tedesca fu brutale e rapidissima, e sicuramente non fu percepita dalla popolazione come un lento crescendo, quanto come un’improvvisa ondata travolgente. Secondo le memorie della nuora del ministro degli esteri sovietico Maxim Litvinov, il compositore avrebbe un giorno confessato a un gruppo di amici intimi:

Certamente riguarda il fascismo, ma la musica, la vera musica, non è mai legata in modo letterale a un tema. Il fascismo non è semplicemente il nazionalsocialismo, e questa musica parla di terrore, schiavitù e oppressione […] e generalmente di tutte le tirannie e i totalitarismi.

Ecco quindi un esempio di quel “doppio linguaggio” di cui si è parlato sopra: il tema del primo movimento si adatta perfettamente al contesto bellico, e i cittadini in guerra potevano rispecchiarsi in esso e trarne forza. Ma nello stesso tempo essi potevano intuirvi una testimonianza delle difficoltà che prescindevano dall’invasione nazista, quelle legate alle deportazioni e alle purghe staliniane, che pesavano sulla popolazione già da anni prima del 1941. La testimonianza intesa come compartecipazione, rispetto, memoria e sublimazione artistica, torna ancora una volta ad essere il tema centrale della poetica di Šostakovič.
La ripresa, dopo questa sezione centrale, ricapitola i temi dell’esposizione in forma trasfigurata:

nella ricapitolazione i temi vengono riesposti e assumono un nuovo significato. La ricapitolazione è una marcia funebre, o piuttosto un requiem per le vittime della guerra: la gente onora la memoria dei suoi eroi.

Il secondo e il terzo movimento, secondo Šostakovič:

non hanno un programma definito: 
si tratta di una musica lirica incaricata di ridurre la tensione. 
Shakespeare sapeva bene che non si può tenere l'uditorio in tensione per tutto il tempo.

Entrambi sono in forma ternaria: il secondo, Moderato (poco allegretto), è una sorta di Scherzo in cui alle sezioni esterne, dolci e liriche, si contrappone la sezione centrale aggressiva e grottesca, ricca di fanfare di ottoni e rombi di percussioni, che ci ricorda che la guerra è tutt’altro che alle spalle.
Il terzo movimento, Adagio, è il fulcro drammatico della Sinfonia. Le parti esterne, d’ispirazione mahleriana, sono la pagina più intima e struggente dell’opera, e contengono tutta la sua fiducia nella civiltà, tutto il suo dolore per la sofferenza degli innocenti, la dignità e l’eroismo di ogni persona comune coinvolta nel conflitto e nel terribile frangente storico di cui Šostakovič era testimone. Si possono rintracciare anche il ricordo della serenità perduta, e la speranza nella sua riconquista. La sezione centrale, ancora una volta, si incunea in quest’atmosfera con brutalità, non permettendoci di dimenticare la minaccia che incombe. Gli Adagi per Šostakovič sono spesso i movimenti più sentiti, e un illustre precedente è proprio l’adagio della Quinta, meraviglioso e dolorosamente sincero anche se parte di un’opera scritta con lo scopo di adattarsi ai dettami della censura.
L’ultimo movimento, Allegro non troppo, poneva un enorme problema al compositore: ricondurre a una conclusione coerente i fili narrativi aperti in una sinfonia così immensa, e riuscire a chiuderla su una nota di speranza nonostante il momento presente apparisse del tutto disperato.
Quest’ultimo movimento originariamente intitolato La Vittoria, titolo in seguito omesso, non si presenta infatti come una vuota celebrazione trionfale, bensì ripercorre in scala ridotta l’intero percorso dell’opera in una faticosissima strada verso la riconquista della libertà. Dopo una cupa introduzione, il primo tema si impone con risolutezza, e il suo materiale verrà sviluppato per tutto il movimento. Il dolore, lo sconforto, la determinazione, la rabbia, l’orrore, la follia, la pietà, il ricordo, l’orgoglio, si rincorrono in questa ricapitolazione, fino ad arrivare alla riproposizione del primissimo tema del primo movimento, quello che dipinge la pace e la fiducia, che chiude in modo circolare l’opera.
Come spesso accade per la musica di Šostakovič, però, il finale non risolve interamente le tensioni emotive introdotte nella Sinfonia. Nel 1942 l’esito della guerra era tutt’altro che scontato, e lo spettro di cosa avrebbe atteso cittadini e artisti anche in caso di vittoria pesava sull’animo del compositore.
La sinfonia è la più lunga mai scritta da Šostakovič, per una durata complessiva di circa un’ora e mezza. Alcuni critici non apprezzarono questo suo aspetto, ma la dimensione imponente dell’opera è funzionale al tema che intende rappresentare. È progettata per essere schiacciante, soverchiante, per apparire indomabile e spaventosa. È la rappresentazione del travaglio di un popolo intero, e come tale non poteva assolutamente essere riassunta o condensata. 
La Settima Sinfonia fu un successo non solo in URSS, ma anche in Occidente. Fu eseguita sessantadue volte negli Stati Uniti, la cui macchina propagandistica curiosamente si schierò in perfetto parallelo con quella Sovietica nel celebrare l’opera come un simbolo della resistenza al nazifascismo.
Dopo la guerra, tuttavia, questa come le altre opere del compositore passarono in secondo piano fuori dall’Unione Sovietica, proprio per i motivi citati in apertura e il timore di cedere terreno alla “propaganda comunista”.
Nemmeno in patria la sorte di Šostakovič fu del tutto lineare dopo questo episodio. La sua Nona sinfonia, scritta appena dopo la gloriosa vittoria contro la Germania di Hitler, causò perplessità per la sua totale assenza di magniloquenza e gravitas. Ancora una volta il compositore giocava con le aspettative del Partito, producendo una musica leggera e giocosa, pervasa da un puro senso di gioia, di sollievo per la fine del conflitto anziché di pesante celebrazione e cordoglio. La morte di Stalin nel 1953 e il periodo del disgelo sotto Nikita Chruščëv sembrarono aprire una finestra di respiro per gli artisti sovietici, ma nel 1964 ancora una volta il governo fece marcia indietro, e compromessi e sottotesti tornarono a farla da padroni.

Šostakovič morì nel 1975, all’età di sessantanove anni. Le sue ultime opere sono intimiste, contemplative e amare, come se i travagli della sua vita si fossero asciugati e condensati, e la sua figura complessa ha lasciato numerose questioni aperte circa la verità del suo sentire più profondo. Tuttavia, a chi è disposto ad ascoltare, la risposta a questi interrogativi si delineerà sempre più chiara, e la sua eredità musicale resta come eterna testimonianza dell’anima del suo popolo, dei suoi sacrifici per la libertà propria e dell’Europa intera.

Nikita Macchi Cassia

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