Il nome di Pizzetti compare insieme a quelli di Renzo Bossi, Gian Francesco Malipiero, Ottorino Respighi e Giannotto Bastianelli (Alfredo Casella era da anni a Parigi, ma due anni dopo avrebbe fatto da caloroso anfitrione al gruppo in trasferta francese) nel battagliero proclama. Per un nuovo risorgimento musicale del 1911, sorta di manifesto della nuova generazione modernista.
Fra i compositori della sua generazione fu quello che ebbe una carriera più precoce e di successo: collaboratore giovanissimo e sconosciuto del Vate che lo battezzò “Ildebrando da Parma”, stimato dal concittadino Toscanini, vide i suoi due primi drammi musicali (Fedra e Debora e Jaele) eseguiti con grande risonanza alla Scala.
Mentre Casella, ancora a Parigi, passava dagli echi tastieristici di Fauré alla fascinazione mahleriana, mentre Malipiero cercava di smaltire gli infelici soggiorni austro-tedeschi, Pizzetti appena ventenne aveva raggiunto una stupefacente maturità stilistica e un armamentario tecnico aggiornato ai più avanzati linguaggi europei.
E così ancora più singolare appare la parabola del parmigiano, principiata tra le smorfie di chi lo pensava un rivoluzionario e conclusa tra gli sbuffi di chi lo considerava un noioso codino: in entrambi i casi senza che ne venisse apprezzata a dovere la scelta di una superiore salubrità e castità del linguaggio musicale.
Dopo i successi di Fedra e Debora e Jaele (quest’ultima portata a battesimo da Toscanini), Pizzetti si affermò principalmente quale autore di drammi musicali. Tra le sue pagine strumentali i Canti della stagione alta costituiscono certo uno dei momenti più importanti della sua produzione, in cui l’austero linguaggio pizzettiano si stempera in favore di un maggiore lirismo, anche se certo la melodia rimane sempre casta e modaleggiante, come nella migliore sua produzione, e l’orchestrazione, pur ricca, rifugge da ogni sfarzo esteriore.