Orchestra Sinfonica di Milano - Articoli

Riflessioni intorno alla Nona di Beethoven

Pubblicato il 23/12/2023

Tentare una descrizione della Nona significa parlare non tanto della sinfonia ultima di una serie, quanto di un Kairos (NdR: gli antichi greci avevano quattro parole per indicare il tempo: Chronos, Kairos, Aion e Eniautos; Tra questi Kairos significa "un tempo nel mezzo", un momento di un periodo di tempo indeterminato nel quale "qualcosa" di speciale accade). Come divinità Kairos era semi-sconosciuto, mentre Chronos (da non confondere con Crono, figlio di Urano e Gea) era considerato la divinità del tempo per eccellenza, mentre Aion veniva associato a una divinità primordiale e di un'utopia. Kairos, essendo la Nona una di quelle opere messianiche che giungono nella pienezza dei tempi, a lungo attese e preparate e persino preannunciate dai segni del destino, come è avvenuto per la Commedia dantesca o per il goethiano Faust. Utopia, poiché la Nona beethoveniana ha rappresentato nel grande sinfonismo dell'Ottocento e del primo Novecento, da Schubert (che ne cita il tema cantato "Freunde, schoner Gotterfunken" nel finale della propria Nona sinfonia in Do maggiore) a Brahms, da Mendelssohn (che alla Nona allude nella Seconda sinfonia Lobgesang) a Bruckner, da Mahler a Skrjabin e persino a Šostakovič, un modello ideale e temuto come irraggiungibile. Anzi, forse, voluto come irraggiungibile per esaltare la certezza che modelli irripetibili esistono, almeno nell'arte se non nella storia e nella vita quotidiana. 
A proposito di Bruckner e di Mahler, la Nona è stata vista come un modello irraggiungibile anche sotto un aspetto in apparenza esteriore, persino frivolo, ma in realtà drammatico e quasi fatale, per chi creda nella numerologia e nel significato esoterico e simbolico dei numeri. Vertice sublime, la Nona di una serie imponente di sinfonie, tanto imponente da lasciar lontano, per quantità, il numero di quelle scritte da Mendelssohn (cinque), da Schumann, da Brahms (quattro). È nota l'ossessione di Bruckner, riuscire a scrivere anch'egli nove sinfonie e vincere la sfida o quasi la malasorte, e sappiamo che Bruckner la sua Nona la lasciò incompiuta e che fu la morte a troncargli il lavoro. Mahler riuscì il numero nove, ma non a superarlo e lasciò incompiuta la sua Decima. È superfluo aggiungere che nella simbologia dei numeri, secondo la millenaria tradizione pitagorico-platonico-ermetica, il numero nove rappresenta la perfezione. 
La Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven è anche una grandiosa 'ricomposizione' di disiecta membra. Che l'apparizione della voce umana nel Finale, con l'affascinante e teatralissimo gioco di solisti e coro, e insieme col raggiungimento di una celeste monumentalità che non smentisce la grandezza teatrale e non ne è smentita, sia un'emozionante coup de theatre rinnovato ad ogni ascolto - e siano pure cento o mille o diecimila gli ascolti della Nona che ci concediamo nella nostra vita - è molto ma non è tutto. Nella Nona si riunificano due percorsi della musica occidentale, divergenti a partire dal tardo medioevo in nome della novità e dell'inventiva, soprattutto in nome della trasformazione e dell'arricchimento tecnico ed espressivo, cui soltanto la musica occidentale è stata incline tra le molte tradizioni musicali del pianeta. 
I due percorsi furono generati dalla progressiva autonomia della musica strumentale dalla musica vocale. Se nella storia della nostra musica esistono zone privilegiate d'incontro tra vocalità e scrittura strumentale (la messa, l'oratorio, l'opera, ma anche il Lied che segna l'incontro illustre tra la voce pura e limpida e uno strumento poeticamente esaltato dalla funzione solistica come è il pianoforte), altre zone sono dominate da generi nati appunto con la vocazione del 'distacco'. Così, se da un lato, sul percorso della pura vocalità, una scrittura come il coro a cappella sopravvive gloriosamente con esiti altissimi anche nel nostro secolo declinante, anche oggi (Schönberg, Petrassi), sull'altro percorso, quello della pura strumentalità, la sinfonia rappresenta la pura autosufficienza. 
Con la Nona, Beethoven impone l'incontro proprio sul terreno sinfonico, nel luogo che la tradizione classica di Mannheim e di Vienna aveva reso il meno prevedibile a tale evento. Così egli annette, conquista, e in tal modo arricchisce d'inestimabili potenzialità sia il genere sinfonico sia la stessa forma sinfonica, e nello stesso tempo li fa esplodere. 

Si tratta di arricchimento o di esplosione, di nuovi tesori d'arte o di crisi incipiente delle olimpiche forme, di scoperte di nuove frontiere o di diaspora potenzialmente distruttiva (è questo, in fondo, l'ambiguo destino  della moderna musica d'occidente, per cui suona fatale la campana quando appare nello spazio dei suoni l'ancora indecifrato Tristan Akkord), si tratti di quel che si vuole, suggeriamo di non mirare alle conseguenze storiche,  ma a ciò che la Nona sinfonia ha in sé, nel suo significato metastorico. Nerone dissestò le finanze dell'impero romano nel I secolo, ma il suo gesto di rendere esenti dalle tasse le provincie di Acaia e d'Asia - ossia l'antica sfera della civiltà ellenico-ellenistica in quanto 'terre d'artisti', dal momento che, pensava Nerone, gli artisti non devono pagare tasse (noi siamo d'accordo, poiché l'arte è più importante di qualsiasi realtà fisica o metafisica), rende caro Nerone al nostro cuore. [...] 

Dunque, che cosa significa in sé la Nona sinfonia
Che cosa esprime e riassume in sé, come incontro 
tanto organico quanto traumatico e clamoroso 
tra voce umana e sapienza di scrittura orchestrale? 

Se la Nona, in vista delle conseguenze ancora lontane ma già segnate, contiene il germe nascosto di ciò che sarà la 'fine della sinfonia' (la Seconda e la Terza di Mahler, che ingigantiscono l'innovazione della Nona beethoveniana, non sono più sinfonie nel senso storico-formale del termine, così come non lo sono più le ultime sinfonie di Šostakovič), in sé e nella propria atemporale semantica simbolica essa rappresenta la Totalità, il Tutto, l'affermazione. La Nona è la composizione musicale che, cadendo in quell'epoca e in quella sfera di civiltà secondo coordinate spazio-temporali volute dal destino (come Kairos, appunto), rifiuta il lessico voluto da ragioni formali, "invece di", "non questo ma quello", "esclusivamente", e impone un lessico guidato dallo smisurato ideale di "Essere nell'essere": quindi, "insieme con...", "questo e quello", "anche", "tutto".

In definitiva, la Nona è l'immagine musicale dell'essere quotidiano attraverso il divenire, nella metastoria raggiunta sia pure attraverso la Storia: per aspera ad astra. E quali astri! Non ci stupisce che Thomas Mann, descrivendo in Doktor Faustus l'infernale e geniale volontà di Adrian Leverkühn nello stadio terminale del suo patto con il diavolo, ossia la decisione di scrivere con la Lamentatio Doctoris Fausti l'opera più dissolutiva e negativa che un musicista possa concepire, l'opera ideata come immagine musicale della Negazione, mette in bocca al suo protagonista una frase terribile e fatale, di primo acchito non compresa bene nel suo vero significato del deuteragonista Serenus Zeitblon: "Ich will die Neunte Symphonie zurücknehmen" (voglio ritirare la Nona sinfonia). 
E poco prima, con un altro riferimento a Beethoven, ossia al motto "es muss sein" in exergo al finale del Quartetto op. 135 (ancora un'opera ultima in un genere e in una forma: l'ultimo quartetto in parallelo con l'ultima sinfonia di Beethoven), Leverkühn aveva detto "Es soll nicht scin...das Gute und Edle" (non dev'essere...ciò che è buono e nobile").  

Nel capitolo successivo, Serenus Zeitblom descrive la Lamentatio di Leverkühn come la dichiarata antitesi della Nona beethoveniana, un inno "An die Trauer" (alla tristezza) così come la Nona si conclude con l'inno "An die Freude" (alla gioia). In exergo alla Lamentatio appare ancora una volta il motto contrario a quello del Quartetto op. 135, con l'aggiunta di una singhiozzante introiezione "Ach, es soll nich sein!" (Ahimé, questo non dev'essere, da Doktor Faustus cap. 45 e 46). Si noti la non lieve differenza di significato nell'uso del verbo "dovere", ossia la sfumatura semantica tra il beethoveniano "muss", un dovere imposto dalla natura cui si ubbidisce in uno spirito kantiano e leverkühniano "soll", la scelta individuale di chi, ubbidendo alle forze infernali, vuole distruggere e distruggersi. 

Quirino Principe

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