Orchestra Sinfonica di Milano - Articoli

Alcune riflessioni sulla musica antica, tra autenticità e sguardi al passato

Pubblicato il 21/03/2021

La recente scomparsa di Emilia Fadini, straordinaria cembalista e interprete di Domenico Scarlatti, in questo 21 marzo, compleanno dell’unico e solo J.S. Bach e giornata scelta dal REMA per celebrare la Giornata Europea della Musica Antica, ci ricorda quanto sia stata lunga e complessa la strada e l’evoluzione della prassi esecutiva della musica antica. La Fadini, insieme a molti altri suoi colleghi (Gustav Leonhardt, Anner Bylsma, William Christie, Christopher Hogwood, solo per citarne alcuni), ebbe un ruolo importante nel portare alla luce quel repertorio, in una nuova luce e con un diverso immaginario: nel rispetto di una necessaria autenticità. Un’evoluzione che ci ha portato fino a oggi (Anno Domini 2021), un presente in cui, oramai, risulta normale e scontata - sia per gli spettatori appassionati che per i musicisti - la scelta di eseguire un pezzo di musica barocca (o antica) attraverso un’interpretazione “storico-filologica” o “storicamente informata”, che parte dalla conoscenza delle fonti e giunge fino all’utilizzo di strumenti antichi, fino alla consapevolezza del contesto storico-culturale. Eppure, il rigore non risiede solo nell’utilizzo del violino del 1716 uscito dalla bottega cremonese del grande Stradivari o nell’utilizzo delle corde di budello. Certamente, tutto vi partecipa. Il rigore parte però dal testo, dalla conoscenza della scrittura (paleografica e interpretativa) del compositore, dallo stile, dalla conoscenza di un mondo (storico e culturale) ben diverso dal nostro. 
Tutti questi aspetti hanno partecipato a vedere modificata la percezione che si ebbe della musica barocca e/o antica. L’inizio della riscoperta della musica antica può essere fatto risalire all’Ottocento e, idealmente, alla riscoperta della Passione secondo Matteo da parte di un giovanissimo (e incosciente) Felix Mendelssohn nel 1829 alla Sing-Akademie di Berlino, però ci volle molto tempo prima di raggiungere l’idea di mondo sonoro consapevole e adeguato alle nostre aspettative. Se nell’Ottocento nacque il desiderio di guardarsi alle spalle e di conoscere la propria storia, è con il Novecento che si scopre la necessità di conoscere i Testi della musica del passato. Agli anni Cinquanta e Sessanta possiamo far risalire la vera rivoluzione per quel che concerne la prassi esecutiva del repertorio barocco, grazie a personaggi del calibro di Gustav Leonhardt e Alan Curtis (che con Leonhardt aveva studiato ad Amsterdam) o l’indimenticabile don Giuseppe Biella della Polifonica ambrosiana (a quel tempo, aveva colpito la sua esecuzione del Vespro della Beata Vergine di Monteverdi), un’esperienza musicale fondamentale per la vivacità culturale milanese. 


Prima di allora, che suono aveva questo repertorio ripescato dai ricordi del passato? 

Un suono che ancora non si definiva, con un’orchestrazione e una vocalità ancora tardo-romantiche (adeguate al gusto dell’epoca e ben lontane dall’estetica barocca), come avevano ben mostrato Bernardino Molinari a Roma al Teatro dell’Augusteo, a partire dagli anni Dieci, ed Ennio Gerelli all’Angelicum di padre Enrico Zucca (personaggio alquanto ambiguo ed enigmatico che aveva avuto un ruolo nel trafugamento della salma di Mussolini), un’esperienza culturale tout-court che aveva ridato splendore a quella Milano dell’immediato secondo dopoguerra lacerata e distrutta dai bombardamenti e da un conflitto interno. 

In questo luogo della cultura milanese, grazie a Gerelli (compositore e direttore d’orchestra di origine cremonese che aveva studiato a Milano con F. Vittadini), in esecuzioni di grande qualità avrebbe trovato spazio la musica di Antonio Vivaldi (i cui manoscritti venivano ritrovati all’inizio del “Secolo breve” a Torino), Giovanni Battista Pergolesi e gli oratori di Giacomo Carissimi, che qui ritrovavano finalmente il giusto successo.
© francobollo realizzato in occasione delle celebrazioni monteverdiane nel 1967



Senza dimenticare il “Grande Claudio” Monteverdi, che proprio in questo secolo veniva indicato come grande padre del Barocco. Un rinnovato interesse per il maestro cremonese era stato supportato anche dall’impegno di Gian Francesco Malipiero nel presentare un’edizione di tutte le opere del compositore (un’operazione editoriale a cui lavorò tra il 1926 e il 1942). 


A confermare il prestigio di Monteverdi in quest’operazione di riscoperta sono le celebrazioni per il suo quattrocentesimo anniversario della nascita, nel 1967: concerti, convegni ed edizioni critiche. 
Intorno a quell’epoca, nel 1969, nasceva il Consort of Musicke di Anthony Rooley (ne fecero parte Emma Kirkby, Evelyn Tubb, Mary Nichols, Paul Agnew, Andrew King, Joseph Cornwell, Simon Grant), uno dei gruppi pionieri nella ricerca sulla musica antica che cercava di mostrare nella musica di Monteverdi il suo particolare approccio, ben espresso nell’intervista rilasciata a Bernard Sherman (pubblicata in un libro imperdibile per gli appassionati "Interviste sulla musica antica"):

La musica è fondamentalmente una questione di armonia, fatta per donare salute e benessere all’anima. In questo consiste la sua origine, ed è questo il motivo per cui i Gonzaga finanziavano Monteverdi a Mantova. Era intrattenimento ma, più in profondità, aveva come fine il benessere e l’armonia. Vorrei dunque che qualsiasi mio contributo porti con sé qualcosa di tale approccio; mi piacerebbe abbracciare qualunque “concorrente” che mi si presenti davanti, e congratularmi con lui per quello che sta facendo, incoraggiandolo. 

Valentina Trovato

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