Contengo moltitudini. Questa è la frase-totem di
Walt Whitman, un poeta che ci insegna, ogni volta che lo leggiamo, a non aver paura delle nostre contraddizioni, ad accogliere le diversità, a partire da quelle interiori, a valorizzare la dissonanza, a coltivare le infinite anime che ci abitano, a non rinunciare a nessuna di esse.
E’ il contrario della fissità di un’identità singola e univoca, quella che un’artista non può permettersi di avere. Lo sa bene Thomas Hampson, IL baritono che fa scuola, che insegna che la voce in Mahler non può essere la stessa che usiamo in Mozart, che lo spirito con cui si affronta il
Winterreise di Schubert non può essere lo stesso con cui ci approcciamo alle
Four Walt Whitman Songs di Kurt Weill. E il contrario dell’identità fissa e univoca è un’identità dinamica, fluida, che si adatta e che cambia. Un’identità giovane come quella americana, che a livello musicale fu stigmatizzata da un’europeo, Dvořák, chiamato nel 1891 a New York per aiutare l’ambiente musicale a identificare una musica di tradizione eminentemente americana, proprio per identificare quale fosse una possibile matrice nazionale, e aiutare il mondo accademico statunitense a coltivarla e valorizzarla. «È lo spirito delle melodie dei neri e degli indiani d'America che mi sono sforzato di ricreare nella mia nuova Sinfonia (La Sinfonia n. 9,
Dal nuovo mondo, in programma). Ho scritto dei temi caratteristici incorporando in essi le qualità della musica indiana, e usando questi temi come mio materiale li ho sviluppati servendomi di tutti i moderni mezzi del ritmo, del contrappunto e del colore orchestrale».
Ed eccole, le moltitudini, quelle che proprio l’America accoglie in sé. La tradizione degli afro-americani, degli indiani d’America, degli europei, che, in questo programma, convivono con la cultura cubana, con la
Cuban Ouverture di Gershwin.
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