Padre Komitas è una figura affascinante. Potrebbe essere eretta a emblema del popolo armeno. Musicista, compositore, musicologo, viaggiatore, studioso, figura centrale della cultura e della musica armena, che va a Berlino per studiare il metodo e per imparare a valorizzare la musica tradizionale del suo Paese. Padre Komitas è emblema del suo Paese e ci ricorda in qualche modo altri due discendenti di questa terra splendida, Emmanuel TJeknavorian e Sergej Babayan, il cui respiro musicale e filosofico ci fa planare sugli altipiani meravigliosi dell’Armenia centrale, dove per millenni i mercanti segnavano tante vie della seta, e che ci fanno interrogare sul senso che possa avere, per gli esseri umani, qualunque ricerca di identità. Quando basta essere come il cielo e le aquile, come i fiumi e le mandrie di bestiame. Come le arie popolari trascritte da Komitas, che non sembrano essere affatto una cultura nazionale ma piuttosto un tratto di umanità che, certo, ha sue caratteristiche anche locali, ma la cui esistenza non è definita da questo. Tjeknavorian e Babayan sono due musicisti accomunati dal non avere confini, dal non avvertire limiti, né di repertorio, né d’interpretazione, né di niente di niente. Ne deriva che, se decidono insieme di rendere omaggio a Ravel nel 150° anniversario della nascita, costruiscono un programma sontuoso in lungo e in largo, una specie di Bengodi raveliano senza pari: i due Concerti per pianoforte (quello in Sol e quello per la mano sinistra, naturalmente), il raro Menuet sur le nom d’Haydn, per pianoforte, la Sinfonia n. 45 degli Addii di Haydn, e il Boléro. Sì, perché Ravel adorava Haydn (e non stentiamo a crederlo, data l’eleganza e l’ironia di entrambi i soggetti), e la Sinfonia degli Addii è l’esatto opposto del Boléro: in una si toglie, in una si aggiunge.
Essere senza confini vuol dire anche questo: creare connessioni dove ancora non ce ne sono.